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Stronza, buona o cattiva. Proprio come te

All’inizio dell’Iliade, Omero si premura di descrivere Achille come una statua perfetta con un tallone preso in prestito da quel suo…

All’inizio dell’Iliade, Omero si premura di descrivere Achille come una statua perfetta con un tallone preso in prestito da quel suo padre umano e inutile. Teti, la madre dea, non fa nulla per migliorare la posizione del consorte perché Achille è pur sempre il suo bambino e cosa possiamo farne di un dio rotto se non trasformarlo in un Eroe redento? Per quasi 2⁄3 dell’Epopea nessuno di noi empatizza con Achille perché è un grandissimo stronzo, un abuser, un violento e perseguiamo nel lanciare anatemi anche quando viene trafitto dal dardo nel suo tallone ma ecco, oddio, che a un certo punto quel suo corpo sbagliato lo fa piangere prima di morire e allora, magicamente, la commozione arriva anche per noi perché in quelle lacrime riconosciamo una cosa: Achille soffre per quella sua imperfezione, la riconosce e si redime dalla sua natura divina per avvicinarsi a noi umane persone, ma non troppo perché lo perimetra allo stesso tempo ancora di più nell’insieme delle persone col tallone di merda, rassicurandoci. Soffri e pentiti. Applauso.
Qualche giorno fa stavo facendo colazione in bar come spesso accade quando vengo in ufficio, non tanto per piacere quanto per una mia totale incapacità di gestire il tempo che dal suono della sveglia all’asciugatura dei capelli sembra velocizzarsi come gli audio di un ex stronzo su whatsapp. Si crea un effetto risucchio, temo, per cui quei dieci minuti che calcolo tra l’olio di argan e la piastra diventano almeno 20 e tutto cade a catena obbligandomi a usufruire del luogo più vicino alla mia scrivania, che sicuramente non è il bar che sceglierei per iniziare bene la giornata. Comunque, ero al bancone a fare colazione ed ero pure contrariata perché il mio posto solito – che è l’angolo più lontano dalle persone ma anche il più vicino ai quotidiani – era occupato da un gruppo di quattro uomini sulla cinquantina impegnati a sorseggiare un caffè corretto sambuca urlando una serie di luoghi comuni come “chissà cosa c’è dentro i vaccini” e sfogliare la gazzetta dello sport con reverenziale educazione. Nessun colpo di scena, dunque, nella vita spericolata emiliana. 
Dopo un veloce ammiccamento alla barista che declina ignorandoli, uno dei quattro inizia a parlare di sua moglie, una conversazione di cui sicuro mi manca un preludio ma che non deve essere troppo complicato recuperare, considerando il dialogo che segue: 

«Oh va beh, se hai paura che abbia un altro spaccale la testa una volta. Vedrai che impara. Tua figlia tanto è piccola, si abitua». 
«Ah si, vedrai che in carrozzina poi l’altro non se la prende più».
«Si oh però insomma, dopo devi lavarla te. Meglio se la ammazzi direttamente».
 
Nei due secondi successivi io sgrano gli occhi, ingoio il cappuccino e faccio per muovere il primo passo verso l’uscita perché davvero l’ultima cosa di cui ho voglia è dover litigare alle 9 di mattina quando uno dei tre si volta verso di me e dice:
 «Dico bene, tesoro?»
 
C’è un universo specifico con i suoi pianeti e le sue galassie in quel “tesoro” che è fatto di potere, di patriarcato, di grassofobia e d’abitudine al controllo. E devo dire la verità, per una frazione di secondo mi ha fatto tenerezza nel suo inconsapevole gesto prevaricante, perché non era prevista una mia risposta che invece, puntualmente, è arrivata.
 
«Prova a immaginare se un giorno al bancone di un bar quattro uomini ipotizzassero di spaccare la testa, anzi no, uccidere tua figlia. Tanto è piccola, no. Si abitua. E che tu fossi in un angolo ad ascoltare senza poter dire o fare niente perché hai paura di sentire la tua testa spaccarsi o la tua vita finire. Prova a immaginare».
 
Non risponde. Temo stia ancora cercando di capire come sia possibile che una donna grassa sia autorizzata ad avere parola e a ribattere con scarsi risultati. Tutti e quattro escono velocemente dal bar e tornano al loro cantiere mentre io resto a finire l’acqua e rilascio anche tutta l’aria trattenuta nei polmoni perché va bene sentirsi Braveheart, ma va male se in realtà sei – potremmo dire – incosciente. Perché conosci tante storie di persone intorno a te che sono finite con aggressioni, violenze fisiche, situazioni pericolose per aver osato respirare troppo velocemente, figuriamoci a rispondere. Ed essendo sicura che no, non hanno capito nulla di quello che hai detto, come mai non si sono comportati da branco come stavano neanche troppo velatamente facendo fino a cinque minuti prima? 
Una riflessione su questa risposta, forse, vale la pena farla.
La realtà è che essere una persona grassa di 1,80 mt mi fornisce l’effetto sorpresa, perché per forma e conformazione vengo esclusa dai corpi ritenuti tali e vengo inserita in un altro contenitore, quello delle cose di cui avere paura, di cui provare disgusto, per cui sprigionare misericordia a seconda che la combinazione faccia – grandezza del culo – altezza possa avvicinarmi a ciò che in voi suscita timore, orrore o quella sensazione di pietas velata, quella che provate verso qualcosa che sarebbe potuto essere, un’occasione mancata, che manifesta il suo dolore in questa condizione, magari piangendo ogni tanto. Una profonda redenzione e abiura, un flagello palesato per appagare quella cosa incredibile che ci fa piangere quando Achille si pente, alla fine: l’ammissione di colpa per aver osato essere altro rispetto a quanto stabilito. Pentiti e sarai ricompensato, combatti e ti uccideremo. Ma il fatto, vedete, è che nel cammino della fat liberation questa cosa si impara. I corpi grassi diventano consapevoli di poter giocare su un campo in cui le regole – dopo un lunghissimo e sfibrante percorso di vita – sono note a entrambe le parti, col segreto che nel silenzio imposto dalla discriminazione hanno avuto tempo di non sottovalutare nulla, per esempio che l’empatia per i corpi grassi esiste solo – e nemmeno lì del tutto – se manifestano pubblica pena e penitenza, ma anche che ormai abituate alla sottomissione di questi corpi, le persone non si aspettano nessuna reazione. Avere chiare le regole della partita e riuscire a usarle in diversi modi per scardinare la struttura è uno strumento utile nel percorso di liberazione, ma delicato perché deve rispettare le nostre inclinazioni caratteriali e tenerci sempre al sicuro come prima cosa. Per cui quando decido di ribattere e lanciarmi, sono supportata da un carattere duro, certo, frutto anche dei miei primi 35 anni. Ma voglio dire che questo non sminuisce la mia marginalizzazione perché uno non vale per tutti.
E’ ancora problematico dire che anche i corpi marginalizzati possono avere spinta propulsiva e reattiva, senza sminuire la portata della discriminazione sistemica a cui sono sottoposti. Tutti i corpi marginalizzati restano tali, anche se rispondono e reagiscono. Non succede niente, le persone che subiscono possono anche essere stronze e no, non devono rendervi conto di nulla. Perché nella ricerca del marginalizzato sottomesso, fragile e distrutto si annida la sindrome dell’Agnello di Dio, una narrazione compilativa e infantilizzante che non distrugge nessuna struttura, ma anzi ne ammette l’esistenza come giustificante. E questo fornisce una buona misura di quanto avesse ragione Michel Foucault: sorvegliare e punire appagano la persona che guarda, la educano a non contraddire la norma, la armano di un potere finto in cui sono giudici e dei. Soffri e pentiti. Applauso. 

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