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L’autismo, un pezzo
del puzzle

Il Due Aprile ricorre la giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo (World Autism Awareness Day. Le città i media e…

Il Due Aprile ricorre la giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo (World Autism Awareness Day. Le città i media e le istituzioni vengono costellate da pezzi di puzzle e luci blu. Tantissime luci blu, come quelle delle sirene della polizia. Questa giornata ha una storia delicata e complessa, una storia che racconta di come i simboli siano potenti e possano modificare la forma e il significato delle storie.

Sin dagli anni settanta del novecento il mese di Aprile è stato istituito, dalla Autism Society (una delle prime associazione di genitori di persone autistiche) come mese dedicato alla comprensione e alla divulgazione sull’autismo. Molto prima dell’avvento del digitale, che ha favorito l’emancipazione e l’autodeterminazione delle persone autistiche, le figure genitoriali erano la principale fonte di attivismo autistico. Erano l’unica voce a cui fosse permesso raccontare l’autismo al di fuori del mondo clinico. Le figure genitoriali non hanno sempre lottato bene, ma va riconosciuto che hanno lottato tanto, contro un mondo in cui la loro prole era considerata semplicemente un problema e una disgrazia.

Molto tempo dopo, nel 2007, le Nazioni Unite hanno proposto il 2 Aprile come data culmine di questo mese di informazione e consapevolezza. Venne scelto il colore blu come suo simbolo, e le ragioni di tale scelta non sono perfettamente chiare, ma pare che la tinta blu sia stata considerata come particolarmente legata alla ricerca e alla conoscenza. Ovviamente la comunità autistica non è mai stata interpellata in merito. Nonostante negli anni dieci del duemila l’avvento di internet avesse già da tempo favorito l’inserimento delle persone autistiche nel dibattito che le riguarda, le istituzioni e le grandi associazioni hanno proseguito nell’ignorarle. 

Buona parte della comunità autistica impegnata nell’attivismo e nell’advocacy è ostile a questa scelta cromatica, in quanto le luci blu trasmettono la freddezza e la tristezza che troppo spesso vengono attribuite alla condizione autistica, ed inoltre rinforzano l’idea che siano solo i bambini maschi, a cui gli stereotipi di genere il blu è destinato, a vivere nello spettro autistico. Insomma, le ragioni sono tante e intricate, ma il blu ci fa incazzare.

Il pezzo di puzzle invece ha un’altra storia a sé, altrettanto problematica, ma che solo in seguito si è intrecciata con il colore blu. Uno dei primi pezzi di puzzle associato all’autismo è stato proposto sempre dall’Autism Society, negli anni sessanta del novecento. L’autismo era visto come un enigma, un rompicapo complesso, proprio come i puzzle. Questo enigma era considerato motivo di sofferenza, ed è per questo che all’interno del pezzo di puzzle veniva spesso raffigurato un bambino in lacrime. Come fosse intrappolato in un mistero doloroso da risolvere.

Con il tempo, molte associazioni sono diventate sempre più potenti e foraggiate economicamente. Autism Speaks, l’associazione per l’autismo più conosciuta (e la più contestata da buona parte della comunità autistica in tutto il mondo) la fa da padrone. Sin dalla sua fondazione Autism Speaks ha incoraggiato la visione dell’autismo come una malattia, e ha sempre voluto tenere lontane le persone autistiche dai vertici della propria associazione. Il suo simbolo è un pezzo di puzzle blu, imitato e proposito all’interno della maggior parte delle iniziative che trattano il tema l’autismo, perché il potere mediatico ed economico di Autism Speaks è così grande da diventare legge e consuetudine, facendo sbiadire ogni altra voce.

So che potrà sembrare una questione accessoria, ma non è così. I simboli sono importanti, influenzano e guidano la percezione comune ma non solo, rivestono un ruolo di riassunto e semplificazione.  Subiamo il condizionamento delle parole che ci raccontano e descrivono. Siamo la nostra storia, ma viceversa la nostra storia siamo noi. I simboli sono potenti ed immediati, e non significa che siano stupidi. Sono accessibili. Arrivano.

E se il messaggio che arriva è che l’autismo sia una disgrazia, una patologia, una sofferenza incomprensibile, una bolla fredda e bluastra come una prigione della mente, allora cominciamo a crederci anche noi. Cominciamo a credere che la nostra esistenza sia un errore e una condanna, per noi e le nostre famiglie. Il problema principale è che questi simboli non li abbiamo decisi noi. Sono decisioni frutto di una percezione esterna, raccontano di come il mondo ci vede, non di come noi ci vediamo e di come sperimentiamo la realtà.

Ci costringe a subire un racconto che ci vede come persone intrappolate in un pezzo di puzzle. Io dico che semmai è questa retorica pietista e abilista ad intrappolarci. Se ci fosse permesso di esprimerci, di spiegarci e di raccontarci, forse la nostra esistenza non verrebbe più percepita come un enigma insostenibile, ma come una delle tante variabili umane. La comunità autistica cerca di farsi ascoltare, ma il 2 Aprile si continua a parlare di noi senza di noi. La nostra gioia e i nostri bisogni vengono patologizzati e descritti come un’epidemia da prevenire.

Leggiamo che in Italia un bambino su 77 riceve diagnosi che lo colloca nello spettro autistico e immediatamente scatta l’allarme, nessuno pensa che una delle ragioni per cui sempre più persone vengono individuate come autistiche nell’infanzia sia frutto dei progressi scientifici che non dovrebbero spaventare, ma aiutare a comprendere questa numerosa minoranza che vive insieme a voi da sempre. Noi persone autistiche siamo sempre state tra di voi. Soppresse e internate, limitate e deformate con violenza, ma siamo sempre esistite. Se oggi avvertite maggiormente la nostra presenza è per via dell’intreccio tra due fattori:

Il primo è che viviamo in un periodo storico in cui, grazie al digitale e alla circolazione rapida di informazioni, qualunque persona ha maggiori possibilità di esprimersi, e questo vale anche per le persone autistiche. Il secondo è che questo è forse il periodo storico più complicato fino ad ora vissuto per le persone autistiche, affrontiamo cambiamenti e adattamenti continui ad una velocità che mette in difficoltà chiunque, noi ancora di più. Il turbocapitalismo ci vede tra le prime vittime, va segnalato che il tasso di suicidio nelle persone autistiche adulte è rilevato 7,5 volte più alto rispetto alla popolazione neurotipica.

In teoria il 2 Aprile dovrebbe essere una buona giornata, per me. Una giornata in cui il mondo si accorge che esisto, che ho delle esigenze non contemplate, che ho un funzionamento non riconosciuto, che sono un essere umano con eguali diritti. Una giornata di formazione e informazione. Invece troppo spesso diventa una giornata in cui vengo trattata come un’orchidea a rischio estinzione da potare con cautela, deumanizzata infantilizzata e delegittimata da chi nel migliore dei casi mi tratta come una macchietta, nel peggiore dei casi come un’impostora perché se sono autistica ed oso esprimermi e contestare l’ordine prestabilito allora non sono credibile, perché la persona autistica non può avere opinioni e passioni.

Riferirsi all’autismo esclusivamente in ambito infantile non è solo offrnsivo, manda comprensibilmente le figure genitoriali nel panico. Si chiedono: Perché non parlate più di miə figliə dopo i 18 anni? Dopo smetterà di esistere? Perché non si parla mai del suo futuro, della sua età adulta, della vecchiaia? Perché non posso immaginare miə figliə anziano, nonostante l’autismo non sia una patologia e dunque non dovrebbe impedirgli di arrivare alla vecchiaia? Il 2 Aprile si parla quasi esclusivamente di interventi e prevenzione, nonostante sia una giornata dedicata alla consapevolezza. Ma anzitutto bisognerebbe essere consapevoli che non tutte le persone funzionano allo stesso modo.

Viene promosso il terrore che nascano troppe persone autistiche, e non ci si preoccupa affatto delle persone autistiche già nate che vorrebbero avere la possibilità di vivere sino alla fine dei loro giorni. Il 2 Aprile ci sentiamo una presenza indesiderata e ingombrante. Per invertire la rotta occorre anzitutto la consapevolezza che le persone autistiche non possono più essere semplicemente spettatrici della storia che le riguarda. Dobbiamo essere viste e ascoltate. Dopodichè potremo parlare del nostro futuro insieme, ragionare su come migliorare le nostre condizioni di vita, e di come questa nostra vita non sia un errore.

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