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Intervista a Maura Gancitano

Di quando era l'unica donna nella stanza, peraltro mai ascoltata, sono rimasti i ricordi. Ma anche quel senso di fastidio e…

Di quando era l’unica donna nella stanza, peraltro mai ascoltata, sono rimasti i ricordi. Ma anche quel senso di fastidio e di urgenza di doverne parlare a tutti costi. «Facevamo le prime presentazioni e Andrea era il “filosofo” Andrea Colamedici, io ero Maura Gancitano. In alcuni casi veniva dato in automatico il microfono prima a lui, che poi lo passava a me. Facevamo le riunioni con i distributori e ovviamente pensavano che il libro in questione fosse stato scritto da lui. Ma siccome io ero sua moglie, alla fine sulla copertina c’era anche il mio nome». Maura Gancitano e Andrea Colamedici, sposati, due figli, sono i volti del progetto che più, in questi ultimi anni, ha saputo analizzare il contemporaneo con gli strumenti della filosofia. Tlon è il pianeta immaginario raccontato dallo scrittore argentino J. L. Borges ma è diventato, con il tempo e moltissima cura, anche un nuovo mondo in cui sentirsi accolti, liberi, mai giudicati (persino sui social). «Ero una ragazza siciliana che voleva fare l’intellettuale – racconta oggi Gancitano -. ma vivevo a centinaia di chilometri dai centri culturali italiani. Non avevo mai desiderato di sposarmi e avere dei figli ma poi ho incontrato Andrea e quando abbiamo deciso di avere dei figli e sono diventata madre, mi sono resa conto dei tanti condizionamenti della società italiana. Il libro “Liberati dalla brava bambina” nasce dai nostri dialoghi e dal percorso di riflessione comune. Nasce dalle discussioni tra me e Andrea e da quelle cose che vedevo, sentivo e percepivo in ambito lavorativo e che inizialmente mi sembravano frutto della mia paranoia».
Nel libro lo chiamate “il problema senza nome” riprendendo Betty Friedan. Un problema che emerge deflagrante, soprattutto dopo la maternità. Come mai secondo te? 
«Con la maternità vedi stereotipi ovunque, ti senti costantemente giudicata, qualunque scelta tu faccia. Devi continuamente dimostrare che il tempo che prendi per te stessa è per qualcosa di utile (fare la spesa, lavorare), non perché serve alla tua salute mentale. E questo può fare molto male a livello psicologico. La maternità potrebbe essere un’esperienza di trasformazione e di percezione del proprio potere, delle proprie capacità e invece forse proprio per questa ragione, diventa al contrario uno strumento per farci sentire ancora più deboli e incapaci di scegliere. Io ho dovuto fare delle scelte molto più decise mostrando, da un lato ai miei figli, che ero anche altro rispetto a quello che facevo per loro e mostrando dall’altra parte alla società che non ero “solo” una madre. In Italia sembra ancora che una madre non possa leggere perché è colpevole, figuriamoci se fa tante altre cose». 
La vostra esperienza personale quindi ha influito molto sulla costruzione della vostra esperienza professionale? 
«Noi lavoravamo insieme nella stessa casa editrice ma il proprietario della casa editrice pagava sempre di più lui. Nonostante fossimo insieme il motore di quel progetto, io percepivo uno stipendio più basso di lui. “Perché tanto è la stessa famiglia, è come se dessi i soldi a entrambi” diceva l’editore. E invece no, perché se mi paghi di meno stai dando meno valore al mio lavoro. Negli ultimi anni si parla molto di più di queste cose ed è anche più facile argomentare, all’epoca no. Mi sono trovata per moltissimo tempo a essere l’unica donna nelle riunioni e a non essere ascoltata, tanto che ero abituata a dire ad Andrea cosa dire al posto mio. Dopo anni di micro aggressioni ed episodi di sessismo costanti, ho fatto la scelta consapevole di mostrarmi. Quello è stato forse il momento in cui io mi sono liberata della brava bambina». 
Da alcuni ambienti elitari e culturali, il sessismo non te lo aspetti. 
«Magari bastasse avere una laurea o un dottorato per non essere sessisti. Ovunque c’è potere c’è la cultura patriarcale, a meno che quel modello di potere non sia stato cambiato. E purtroppo fatico a pensare a un ambiente in cui non c’è questo comportamento: che sia paternalismo, sessismo benevolo o discriminazione aperta. Negli ambienti culturali c’è la presunzione di non avere una cultura arretrata invece non è così. Le donne sono ormai molto presenti sia come redattrici che come editor, ma non hanno leadership e a decidere sono gli uomini. Che hanno la presunzione di essere superiori, colti e quindi di non avere pregiudizi. Ovviamente non è così: io ho ricevuto insulti e frasi più piccate e infastidite proprio da uomini colti a cui dava fastidio che fossi giovane e donna».
Come non isolarsi e creare alleati?
«È importante parlarne, è importante che le persone attorno a te facciano un percorso di consapevolezza. Tlon nasce proprio come un gruppo di amici, ex compagni di università di Andrea. Da allora il gruppo è cambiato, si è evoluto, c’è stata anche una trasformazione personale importante con una consapevolezza diffusa su queste tematiche per ognuno di noi. Abbiamo sempre fatto più attenzione al linguaggio, ai comportamenti, al senso di responsabilità, alla fiducia. Perché se sono solo le donne a sottolineare certe cose e a vederle, le cose non possono cambiare. È necessario che le persone che hanno dei privilegi si rendano conto dei propri privilegi  altrimenti entri in conflitto con il mondo, pensi sia tutto sulle tue spalle e non è risolutivo».
E se l’alleato che cerchi non è neanche il tuo uomo?
«Questo è un aspetto fondamentale e ha a che fare con la Sindrome di Filippo, quindi con i modelli maschili che vengono assorbiti dagli uomini senza che neanche se ne rendano conto. C’è da una parte la volontà, l’esigenza di non volere aderire a un vecchio modello e dall’altra l’incapacità di capire esattamente cosa fare. Mi è capitato spesso di parlare di relazioni in cui l’uomo pensava pure di essere femminista ma in realtà rispondeva perfettamente alle logiche patriarcali e non aveva la predisposizione di osservare i propri comportamenti e i propri mostri. Ma ho visto anche tanti uomini che avevano una chiusura totale rispetto a questi argomenti e che invece hanno iniziato a farsi delle domande, a leggere, ascoltare delle persone».
Spesso quando si sollevano questi argomenti con gli uomini c’è una sorta di fastidio. O no?
«È fisiologica la fatica e anche il fastidio che un uomo può provare di fronte a questi discorsi ma non è più giustificabile l’ignoranza. Il fastidio è fisiologico ed è lo stesso che si prova quando, da persone bianche, le persone nere ti parlano del tuo privilegio e tu non sai cosa fare, non sai come comportarti. Però questo fastidio è necessario, lo dobbiamo provare altrimenti rischiamo di vivere comodi nei nostri privilegi. Non dev’essere la donna in una coppia a dover in qualche modo salvare l’uomo dal suo patriarcato interiorizzato. Quello tra uomo e donna dev’essere un rapporto paritario e se possibile dev’essere stabilito prima e per tempo. Io e Andrea ci siamo conosciuti molto giovani, abbiamo avuto la prima figlia che lui aveva 25 anni e io 24 e ci siamo subito resi conto che certi ruoli non avevano nulla a che fare con noi. Ci sono persone che diventano identiche ai propri genitori nel momento in cui hanno figli. Noi ci rendevamo conto di quanto l’educazione con cui eravamo cresciuti fosse pesante. Era difficile uscire da quei binari, complicatissimo ma necessario. È ovvio che è molto più comodo seguire modelli prestabiliti: la donna fa certe cose, l’uomo ne fa altre. Ma a noi questo non piaceva e per fortuna ne abbiamo parlato. Molto spesso quello che accade è che non ci si parla: o ci si azzanna o si resta in silenzio. Invece è importante parlarne persino prima ed è importante vedere se nell’uomo c’è il desiderio di cambiare. Spesso invece vedo tante donne è che si trascinano dietro i compagni per riuscire a fare un piccolo pezzetto di strada insieme e questo rallenta tantissimo il cambiamento. La nonna di Andrea dice una cosa che dicono molte donne anziane: essere donna oggi è molto più faticoso. Perché è vero che loro non avevano possibilità di scelta, si dovevano sposare e avere figli, ma adesso noi dobbiamo tenere insieme tutto. E se dobbiamo anche occuparci della decostruzione dell’identità maschile del nostro compagno, ne usciamo devastate fisicamente e psicologicamente, non può essere tutta nostra responsabilità. Dobbiamo cercare di capirlo prima, se l’uomo che abbiamo davanti ha voglia di fare questo percorso che è un percorso suo, che ha a che fare con il suo impegno e con le sue letture. È assurdo ma molto spesso i libri sulla decostruzione della mascolinità tossica li leggono le donne, che cercano poi di somministrarli tipo omeopatia ai loro uomini. Non è così che può funzionare, non  possiamo, oltre a tutto il lavoro che dobbiamo fare sul nostro ruolo nella società, sul lavoro, nella casa, non possiamo anche occuparci di trascinare qualcuno che non vuole cambiare e che rischia anche di manipolarci. Quello che dovremmo cercare di capire davvero, magari prima di farci dei figli e di andare a viverci insieme, è se quest’uomo ha voglia di capire davvero. E questo non ha niente a che fare con il livello culturale perché ci sono degli uomini molto colti e considerati maestri di vita che alla fine di una registrazione televisiva ti dicono delle cose orribili come è effettivamente mi è successo. Non è il livello di cultura la discriminante ma l’umanità e il desiderio di cambiamento reale della persona con cui stiamo. È questo che dovremmo cercare di riconoscere».

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