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Maneggiare le lacrime

Piango nelle situazioni più disparate. Mi capita mentre vado in bici, mentre  sono sotto la doccia e persino mentre gioco…

Piango nelle situazioni più disparate.

Mi capita mentre vado in bici, mentre  sono sotto la doccia e persino mentre gioco a tennis.

Un ricordo mi attraversa la mente e così, mentre sto servendo o rispondendo a una palla corta, la vista si annebbia e le lacrime cominciano a rigarmi le guance. Spesso i miei avversari neppure si accorgono che sto piangendo. Oppure, con discrezione, fanno finta di nulla.

Una volta mi è capitato al bar. Ero al bancone, bevevo un caffè e  ho iniziato silenziosamente a lacrimare. Ho inforcato gli occhiali da sole perché l’istinto, in queste situazioni, mi spinge a nascondere, a nascondermi. Ma il mio vicino, un ragazzo con la barba e una t-shirt colorata, mi ha visto. Così, senza dire nulla, mi ha allungato un kleenex. “E’ l’allergia” mi sono giustificata, sentendomi doppiamente stupida. Mi ha rivolto un sorriso carico di comprensione: “La capisco. Succede anche a me. Probabilmente soffriamo della stessa allergia”.

Ma perché piango?

Di solito per una botta di tristezza. E la botta di tristezza arriva, per definizione, all’improvviso. Basta un dettaglio: due persone che camminano tenendosi per mano, le parole di una canzone ascoltata attraverso una finestra aperta, una fotografia che fingo di non vedere. Un pensiero che tento di scacciare  ma riaffiora con prepotenza,

Succede così: la tristezza mi invade e gli occhi si riempiono di lacrime. Me le immagino, le lacrime, lì, in agguato, pronte a sgorgare. O magari nascoste da qualche parte, nel mio corpo, ma rapide a trovare la strada, quando serve. Perché sì, in quei momenti, ho bisogno di piangere. Perché se non piangessi, la tristezza si solidificherebbe dentro di me, si trasformerebbe in grumi compatti e rappresi, occuperebbe spazio, sempre più spazio, tutto lo spazio.

Piangere è un modo per sciogliere il nodo che mi soffoca la gola, per alleggerire il peso che sento nel petto. Piangere significa arrendersi, abbandonarsi alla tristezza e allo stesso tempo, o forse proprio per questo, andare oltre. Bisogna passarci attraverso, alla tristezza, per potersene allontanare.

“Fai pure, io piango con una certa regolarità perché se si accumula la tristezza diventa ingestibile – mi ha detto Sara, dopo che mi ero fatta una sessione di pianto con lei – Praticamente è un lavoro gestire la tristezza”.

Le ho sorriso tra le lacrime. E ho pensato che ha ragione: è un lavoro gestire la tristezza

Devi riconoscerla, coglierne i segnali,  individuare quelle sottili incrinature che affiorano piano sulla superficie e all’improvviso si allargano, si espandono, invadono tutto.

Devi tenerla a bada quando arriva a ondate. Respirare a fondo, aggrapparti a qualcosa fuori di te – qualsiasi cosa, lo sguardo di un passante, il pensiero di ciò che mangerai a cena, l’immagine del rovescio perfetto di Roger Federer – per evitare che ti travolga.

Devi lasciare che si sfoghi, che venga fuori, che erompa in qualche modo.

Ma devi anche trattenerla, non lasciare che scivoli via così, come se nulla fosse.

Trattenerla e lasciarla lì, a decantare, e poi cercare di capire.

Trattenerla abbastanza per comprenderne le ragioni (da dove è arrivata, come è montata, di cosa si è nutrita) senza che si trasformi in una cuccia calda in cui crogiolarsi.

“E’ un lavoro – ha continuato Sara – ed è un lavoro che richiede una certa privacy perché se qualcuno ti vede piangere allora diventa davvero un bel casino”.  Ho pensato di nuovo che aveva ragione. Abbiamo sdoganato tanti tabù, in questa società, ma non quello delle lacrime.

Ci vergogniamo di piangere come fosse un sintomo di debolezza, una fragilità che non possiamo permetterci. Quasi risuonasse ancora in noi l’eco delle parole (“non piangere, comportati da persona adulta… piangi come una femminuccia”) che, prima o poi, da qualche parte ci hanno rivolto.

Ci vergogniamo di piangere e, quando ci accade, spesso ci giustifichiamo. O, addirittura, come faccio di solito io,  ci scusiamo.

Di fronte a qualcuno che piange non sappiamo che fare. Tendiamo a ignorarlo, a minimizzare (“ma no, dai, non piangere, che sarà mai”) oppure lo preghiamo di smettere perché “tanto non serve a niente”, perché un rimedio si trova di sicuro, perché “non sopporto di vederti così”.

La realtà è che non siamo abituati a maneggiare le lacrime. Ci imbarazzano, ci preoccupano, talora ci infastidiscono. Non siamo abituati ad accoglierle, le nostre e quelle degli altri. Accoglierle e prenderle per quello che sono. Una manifestazione delle emozioni che proviamo. La tristezza ma anche il dolore, la malinconia, la nostalgia, la frustrazione, la rabbia. Una manifestazione della nostra malconcia ma irriducibile umanità.

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