Dopo la pubblicazione della traduzione francese del mio libro, essendo io una secchiona di vecchia data, al vederlo stampato dalle PUF (l’editore di molti dei libri su cui mi sono ingobbita quando vivevo a Parigi e lavoravo alla mia tesi di dottorato) provo un groviglio di emozioni fra cui spiccano: incredulità con sfumature di senso di colpa (altresì nota come sindrome dell’impostore), gratitudine, poi di nuovo un poco di incredulità, poi una maggior gratitudine. Emozioni sovrastate da una gioia profondissima nel momento in cui l’editore mi comunica che andrò a Parigi per un’intervista: raccolgo armi e bagagli e volo, alle prime luci di un’alba di piena estate, fino alla metropoli che trovo splendida, semideserta, canicolare.
Il video lo giriamo subito, non c’è tempo da perdere; mi trucco da sola, in tre minuti, in bagno. Mi siedo e cominciano le domande. Passano due settimane e, montato a dovere, il video viene diffuso dal sito francese: e siccome è un sito che ha una gran diffusione, il video ha moltissime visualizzazioni, oltre mezzo milione. Una cosa inaudita, almeno per me, che sono molto schiva, essendo una timida che a un certo punto ha deciso di non lasciarsi ricattare dalla timidezza – è stato quando ho scoperto la paura che se non lo avessi fatto poi un giorno mi sarei trovata a dirmi «è troppo tardi», davanti alla mia bella collezione di rimpianti.
Una cosa però non l’avevo messa in conto: quando un video, una fotografia o un articolo ha grande diffusione, si moltiplicano i commenti. Sotto la mia faccia e la mia voce che parla di Epicuro e di Epitteto, di commenti ce n’è un fiume; cerco di non leggerli, perché so benissimo che nei fiumi di commenti gorgogliano mulinelli di insulti. Sono una timida che si sfida, ma non ho il cuore di pietra. Oltretutto – qualche volta mi è già capitato – leggere insulti di sconosciuti alla propria persona fa un effetto strano, un misto di rabbia, frustrazione e – soprattutto – umiliazione. Umiliata, difatti, mi sento quando, nel condividere il video, purtroppo mi cade l’occhio sul commento di un signore – sembrerebbe di mezza età, a giudicare dalla foto sfocata e non molto curata, un selfie che somiglia alle immagini del profilo di tanti innocui signori di mezza età che abitano la Francia, l’Italia, l’Europa e il mondo intero. Solo che il commento dice, in un francese sgrammaticato, all’incirca così: «Se ti levassi quelle porcherie dalla faccia, saresti più bella e non sembreresti una puttana. E ho cercato di essere educato». Ho tradotto puttana, lui aveva scritto «catin», che come il nostro tegame, in uso in certe zone della Toscana, vuol dire, appunto, puttana… ma un amico francese mi ha detto che in confronto a «catin», tegame è troppo ironico e blando. Quindi mi scuserete se uso la parola nuda e cruda.
Leggendo questo commento, mi sento avvampare, divento di tutti i colori. Mi bruciano le guance. Io fra l’altro ho il problema di essere una che si arrabbia poco – me lo rimprovero: non hai tempra, mi dico, non potresti essere un po’ più fumantina? E invece ogni volta mi compaiono davanti agli occhi le ragioni di tutti, e solo poi, e molto sbiadite, le mie; questa volta però sono furiosa. La cosa che mi manda in bestia è la conclusione di quel commento: «e ho cercato di essere educato». È il commento di una persona che pensa che dare della puttana a una sconosciuta che in un video racconta di Pitagora e di Epicuro, sia educato: perché lui è un uomo, un vecchiardo che sa il fatto suo, e alla puttana che gli parla di filosofia è lui che deve insegnare come truccarsi, come fare per essere più bella – implicitamente: più pura – ai suoi occhi di vecchiardo sconosciuto. Che naturalmente è la mia massima ambizione.
Guardo la mia faccia nel video. Nel bagno mi ero truccata un po’ alla carlona e difatti, me ne rendo conto troppo tardi e con un diavolo per capello, il rossetto me l’ero messo male: c’è uno sbaffo sull’angolo destro del labbro, mannaggia a me e alla mia fretta. Ma quel rossetto nessun signore che si ritenga educato nel darmi della puttana ha il diritto di criticarmelo, malgrado lo sbaffo, malgrado tutto.
Per me quel rossetto, indossato pure maluccio per la fretta, subito prima di registrare un video in cui parlo di cose che ho studiato, di un libro che ho scritto seduta alla mia scrivania, con le occhiaie nella luce livida dell’alba, truccata «per tirarmi un po’ su» o perché appena tornata da una lezione o da una cena, la notte in pigiama con l’abat-jour accesa, quel rossetto rappresenta molte cose. Fra cui la gioia, il piacere purissimo e la soddisfazione di essere tornata a Parigi, malgrado la sindrome dell’impostore e tutto il resto, a registrare un video in cui parlo del mio libro. Parigi è la città che mi ha insegnato a portare il rossetto, dopo gli anni in cui mi infagottavo in vestiti scuri, gli anni in cui volevo essere invisibile, tutta testa, per farmi prendere sul serio, per dimostrare che ero brava e seria; gli anni in cui ero una studentessa insicura e mi intristivo, assediata dalla competizione che respiravo nei corridoi della Normale e in cui non mi riconoscevo, da pettegolezzi e insinuazioni, da chi mi diceva «Sei troppo carina per essere una normalista», da chi mi riteneva un’oca giuliva perché avevo vent’anni e voglia di scherzare e pure di flirtare. Quando mi sono trasferita a Parigi, per il dottorato, guardavo le ragazze nel metrò, mi incantava il loro fascino un po’ selvatico, i capelli spettinati come i miei; e tutte, tutte, portavano il rossetto. Ho pensato di provare, tanto non mi conosce nessuno, mi sono detta. Mi sono comprata il mio primo rosso-rosso, ancora me lo ricordo, era un Revlon, al Monoprix di rue de Belleville. Me lo sono messo di corsa, nello specchietto di un camioncino, e con le labbra dipinte ho camminato per la strada in discesa, ero felice. Mi ero liberata dallo sguardo cattivo che volgevo a me stessa, offrendo credito a chi mi dava dell’oca giuliva; ero libera di cercare gli sguardi che volevo, di rispondere con lo sguardo mio, finalmente sgombro, di sorridere quanto mi pareva, e di flirtare, se mi andava. Libera di essere seria, secchiona di vecchia data, di scrivere e pensare e insieme camminare con il mio rossetto senza curarmi dei pareri dei vecchiardi o dei noiosi, che alla fin fine, semplicemente, dobbiamo ricordarci di non prendere sul serio. Questa storia, raccontata sui miei social, ha ricevuto commenti sbalorditi da parte di uomini e donne, tra i quali mi è rimasto impresso quello di Emanuela: «Dobbiamo fare tutte come la sorella di mia nonna» mi ha scritto su Facebook, «che non ha mai smesso di mettersi il rossetto al grido di “Io, alla mia età, ancora mi pitto il muso”». Pittiamoci il muso e siamo fiere.