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La femminista Marilyn Monroe

Erano completamente diverse: una aveva la pelle di luna, il fascino del sex symbol, la fama di una diva che iniziava…

Erano completamente diverse: una aveva la pelle di luna, il fascino del sex symbol, la fama di una diva che iniziava già a sentire il peso di un profondo tormento interiore. L’altra era una donna nera con una voce destinata a essere ricordata per sempre. Ma anche se sei la first lady of song, quattordici Grammy e venticinque milioni di album venduti in cinquanta anni di carriera, anche se ti chiami Ella Fitzgerald e hai una voce che spacca il culo a tutti, succede che negli anni del Ku Klux Klan riesci a esibirti solo nei localini underground. Succede che gli artisti neri come te vengono presi di mira, emarginati, arrestati con pretesti assurdi. Anche nel 1954, anche quando finalmente la Corte suprema degli Stati Uniti d’America ha dichiarato incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Eppure, nel novembre di quel 1954, le strade di queste due donne così diverse, così lontane, così agli antipodi si incrociano.
Marilyn Monroe è all’apice del suo successo dopo Gli uomini preferiscono le bionde e Come sposare un milionario ed Ella Fitzgerald è la sua cantante preferita. Gliel’ha fatta conoscere il suo insegnante di canto Hal Schaefer, le dice che per migliorare la voce deve ascoltare e riascoltare la miglior cantante jazz in assoluto, una signora ancora lontana dall’essere il mito che sarebbe poi diventata da lì a poco e i cui concerti, nei locali in cui si esibiva, già andavano sempre sold out. Un giorno Marilyn viene a sapere che a Ella Fitzgerald non viene concesso di esibirsi al Mocambo, il prestigioso locale al numero 8588 del Sunset Boulevard di West Hollywood frequentato da star come Humphrey Bogart, Clark Gable e Tony Curtis, Charlie Chaplin, Marlene Dietrich. Oltre a lei, ovviamente. Marilyn si attacca al telefono e inizia a chiamare il manager del club. Gli telefona personalmente e intavola con lui una lunga trattativa: «I due patteggiano come in un suk arabo» ricostruisce un divertente pezzo di «Marie Claire», «lui avanza proposte, lei fa contro proposte. Alla fine giungono a un accordo i cui termini ufficiosi sono: “Okay, tu fai esibire Ella Fitzgerald nel tuo locale e io mi impegno a sedere nella prima fila ogni sera, per una settimana”. E così sarà: Marilyn in prima fila tutta la settimana ad applaudire, Ella tutte le sere a cantare sul palco». Diventerà la prima donna nera a esibirsi in un locale così importante spianando la strada ad altri artisti neri che, dopo di lei, cominceranno a esibirsi ovunque.
Durante quelle serate al Mocambo non sapevano ancora, le due ragazze, che a dispetto delle apparenze avevano molto in comune: l’infanzia difficile, gli abbandoni, le insicurezze, quel desiderio ostinato e mai realizzato di diventare madri. Marilyn ed Ella non sapevano ancora niente di tutto ciò, eppure si sostennero a vicenda, unite. Contro l’inciviltà e le ingiustizie, a favore delle donne e dei neri, contro i pregiudizi dei fotografi che le immortalavano insieme per la loro eccessiva diversità. Marilyn usò il potere in suo possesso per aiutare un’altra donna, offrendo al mondo una lezione imprescindibile di sorellanza e femminismo. Proprio lei, la bionda più celebre della storia, la femme fatale preda dell’immaginario maschile, la ragazza che leggeva Joyce e giocava con le pose da diva e nella cui casa, al momento del decesso, furono trovati centinaia di libri. Dovremmo pensare a Marilyn e a Ella tutte le volte che abbiamo l’occasione di aiutare una donna di talento, di sostenerla, promuovere le sue capacità. Tanto più se si trova in un momento di debolezza, di fragilità. Senza piedistalli a priori, sia chiaro, ma facciamolo.
E facciamolo anche se in passato ci è capitata per la strada una stronza che con noi ha fatto tutto il contrario, che ci ha ostacolato o sfruttato, illuso e mai aiutato. Non diventiamo come quelle che guardano male le altre donne che non hanno timore di mostrare la loro femminilità, non diventiamo come quelle che assumono abitudini, codici e linguaggi maschili per entrare a corte, quelle che appena hanno un po’ di potere lo usano per ingraziarsi altri uomini di potere. Ricordatevi sempre la fatica che facciamo, noi donne, ancora oggi a muoverci «nelle sabbie mobili di pregiudizi e stereotipi che si frappongono, tra noi e la vita». Ci proviamo anche, a raccontare tutto ciò agli uomini, a spiegare, ha scritto Silvia Ziche, ma «di solito quello che raccontiamo viene bollato come femminile e interessa poco». Non ci ascoltate. Preferite dire che siamo «un mistero». Preferite dire con aria stupita e paterna: «Ma non ce l’avete la parità? Che altro volete ancora?». Anche questo è un luogo comune, le statistiche dicono altro. Ecco, vorremmo che vi fosse chiaro. Ha scritto ancora Ziche: «Vorremmo non essere guardate con stupore se raggiungiamo dei risultati nonostante la vostra diffidenza. Vorremmo essere giudicate per le nostre idee e per gli obiettivi che abbiamo raggiunto e non ancora, e sempre, per il nostro aspetto fisico. Vorremmo essere prese sul serio. Vorremmo che la smetteste di stupirvi ogni volta che per la prima volta una donna raggiunge una posizione o un obiettivo che finora le era stato precluso. Vorremmo spiegarvi che noi siamo stupite del fatto che ancora ci siano delle posizioni che non abbiamo potuto raggiungere. Vorremmo che la smetteste di rappresentarci in modo stereotipato…Vorremmo che capiste che i pregiudizi non sono un problema nostro, ma di tutta la società e come tali vanno affrontati, da tutti». 
E poi io, personalmente, vorrei più Marilyn ed Ella. Dopo la morte di Monroe, nel 1962, Fitzgerald confermò l’episodio del Mocambo: disse che doveva molto all’amica scomparsa e che la sua carriera non sarebbe mai decollata, senza quella telefonata, senza quella settimana al numero 8588 di Sunset Boulevard di West Hollywood e senza quella bella testa bionda che il mondo non dimenticherà mai.

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