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Intervista a Margaret Atwood

«Nessuno muore per mancanza di sesso. È per mancanza d'amore che moriamo». Lo scrive Margaret Atwood, dovremmo ricordarlo spesso anche noi. Perché è proprio l'amore che cerchiamo ostinatamente nel corso…

«Nessuno muore per mancanza di sesso. È per mancanza d’amore che moriamo». Lo scrive Margaret Atwood, dovremmo ricordarlo spesso anche noi. Perché è proprio l’amore che cerchiamo ostinatamente nel corso di una vita intera: da quando, da bambini, tendiamo le braccia verso i nostri genitori e poi ancora quando diventiamo adulti e lo desideriamo dalle persone che scegliamo, dalle amicizie che coltiviamo. Persino nei libri che leggiamo, lo agogniamo: «L’amore è una maledizione che piomba addosso e resistere è impossibile» scrive Dino Buzzati. Ma non si tratta solo del tipo di amore che June Osborne prova nei confronti di Luke o Nick: è amore anche la  mano di June in quella di Janine, il pettine di legno che passa tra i capelli della figlia, gli occhi negli occhi dell’amica Moira. L’ultima stagione de Il racconto dell’ancella spiazza, tramortisce, fa male come un pugno nello stomaco ma la strada che porta all’amore (per se stessi, la libertà, l’emancipazione, la sorellanza) spesso è fatta anche di questo. Come racconta chi le ancelle le ha create, caratterizzate, romanzate tanto tempo fa in un libro del 1985 che continua ad appassionare milioni di lettori e lettrici in tutto il mondo. Un libro definito distopico ma che ha più punti di contatto con la contemporaneità di quanto immaginiamo. Perché esplora i temi della sottomissione della donna e dei vari mezzi che la politica impiega per asservire il corpo femminile. Ma anche perché parla di vendetta e della rabbia delle donne nel loro cammino verso la libertà: «La strada verso il progresso non è una strada di mattoni gialli che ci porta diritto verso la città di Oz» racconta Margaret Atwood in questa intervista, fatta insieme ad altri giornalisti nell’ambito del premio Lattes Grinzane 2021. Tra i mattoni gialli, fa intuire Atwood, c’è anche il dolore, la frustrazione, l’isolamento come accade a June. E come accade a tutti noi. «Quel che è certo – risponde Atwood collegata da Alba, in Piemonte – è che le esperienze che i personaggi della serie hanno vissuto, li hanno cambiati profondamente proprio come accade nella vita reale. Io ho un’età tale – spiega – per cui ho incontrato e conosciuto persone che hanno vissuto in regimi totalitari durante la seconda guerra mondiale e queste persone hanno raccontato e testimoniato di esserne uscite completamente diverse. Ho avuto l’occasione di parlare con una donna polacca che all’epoca, quando era giovane, ha fatto parte della resistenza contro il regime nazista di occupazione e mi ha detto: “prega di non avere mai l’opportunità di diventare un’eroina perché quello sarà un tempo di crisi”. C’è stato uno studio molto complesso su questo, in occasione della quarta stagione de Il racconto dell’ancella».
Si fa sempre molta fatica a comprendere la rabbia delle donne. In Italia nelle scorse settimane c’è stata molta rabbia per una statua, la spigolatrice di Sapri, sessualizzata in ogni suo aspetto. Cosa ne pensa?
«Quando viene fatta una rappresentazione di una contadina di un’altra epoca, bisognerebbe partire da quell’epoca: una spigolatrice di quei tempi si sarebbe mai vestita così? No e allora perché è stato imposto questo cambiamento? Probabilmente perché lo scultore voleva una ragazza sexy da mostrare. Noi dobbiamo continuare a lavorare per il cambiamento sociale ma dobbiamo essere consapevoli che è un lavoro lungo e che richiederà molte energie. Una femminista della mia generazione Ursula Le Guin, ha detto: “la rabbia è una buona forza motrice ma attenzione perché se si avvolge troppo su stessa, rischia di diventare tossica”. Io sono un’attivista di Equality now che si propone di fare pressione per cambiare le leggi che discriminano le donne in vari paesi del mondo. Quando parliamo di queste cose, dobbiamo sempre partire dai fondamentali: la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 a cui è seguita la dichiarazione per i diritti delle donne e per le popolazioni indigene. Rileggiamo questi testi, non può che farci bene».
C’è una nuova generazione sempre più impegnata su questi temi.
«Il nostro futuro è nelle mani di questi giovani attivisti, che tra poco saranno grandi abbastanza per andare a votare e i politici dovrebbero pensarci bene perché vengono eletti grazie ai nostri voti. Le persone dovranno decidere chi mandare a governare in modo che siano certi che in futuro neanche troppo lontano ci sia almeno una generazione di umani su questo pianeta».
I romanzi riescono, più della scienza, a parlare e raccontare le emergenze attuali come quella climatica? 
«Quello che riescono a fare le storie, meglio della scienza, è creare un impatto emotivo.  La tavola degli elementi è importante ma manca l’impatto emotivo che è innescato solo dalla storia di un individuo che rispecchia me, te, tutti noi. Il grande romanzo dell’Ottocento esplorava la realtà sociale, pensiamo a Les Miserables che raccontava la parte più povera della popolazione parigina. Se Victor Hugo avesse presentato questo problema con delle tavole statistiche, sicuramente non avrebbe avuto l’impatto che la sua opera letteraria ha poi effettivamente avuto nel corso dei secoli. Ora la crisi climatica è uno sfondo su cui noi ambientiamo le nostre storie ma non c’è nulla di inventato, è tutto vero, reale»
La conoscenza è potere?
«Molte cose che vengono presentate sulla rete vengono presentate come vere, ma non lo sono affatto. Spesso viene fatto per disinformare, vendere qualcosa di cui non abbiamo effettivamente bisogno o destabilizzare un sistema, per mettere le persone una contro l’altra come sta succedendo negli Stati Uniti. Come ci ha insegnato la storia, quando c’è una situazione di anarchia, è lì che si trova il terreno fertile per un dittatore che dice: “metterò a posto io le cose, qui c’è troppo caos”. Quello che dobbiamo capire, è chi sta destabilizzando la situazione e perché lo sta facendo».
Com’è cambiata la sua vita da scrittrice dopo il Covid?
«Nel Decamerone durante una pestilenza un gruppo di giovani si ritira in un casolare in campagna e racconta delle storie. Questo espediente è stato usato anche dal New York Times durante il Covid per fare in modo che degli scrittori raccontassero delle storie a un pubblico riunito dietro il proprio computer. Ho partecipato anche io, ma sono certa che a scrivere e raccontare meglio di quanto accaduto in questi ultimi mesi saranno le nuove generazioni perché sono loro che hanno subito un impatto maggiore da questi lockdown. Sono avvenuti in un momento della loro vita in cui hanno grande necessità di socializzazione e per loro ha avuto un impatto traumatico molto di più di quanto non l’abbia avuto io o le persone della mia età. Perché vi voglio svelare un segreto: in realtà non vado più in discoteca. Potrei, ma non ci vado».
Alcuni critici sostengono che la grande letteratura non possa essere impegnata.
«Probabilmente la critica si riferisce alla letteratura che si fa propaganda ma se noi consideriamo il grande romanzo storico, penso ad Anna Karenina o Guerra e Pace, entrambi fanno un ritratto della scena sociale dell’epoca. Questo avviene in tutti i romanzi dell’800, si dice che Max Jacob non giudicasse mai i suoi personaggi, in realtà esprimeva delle critiche molto sottili mai esposte pubblicamente, ma che trapelavano dai suoi testi. A volte lo stesso lettore è chiamato ad esprimere giudizi su quello che sta leggendo. La grande letteratura è sempre socialmente impegnata altrimenti non sarebbe grande. Ma bisogna lasciare ai critici qualcosa di cui parlare, altrimenti si annoiano».
Il suo rapporto con i lettori?
«Di quale decennio vogliamo parlare? Agli inizi, quando avevo 20 anni, i miei lettori erano più vecchi di me. Alcuni mi definivano una giovane promettente, altri semplicemente una ragazza sciocca. Poi si invecchia e si arriva all’età di mezzo e i lettori sono diventati molto più critici e giudicanti. Se hai la fortuna di invecchiare ancora, come me, ti ritrovi con la maggior parte dei lettori più giovane di te che si divide tra chi ti considera una vecchia strega irrilevante e chi una donnetta saggia. Beh, preferisco la seconda opzione ma presenta comunque dei rischi perché tutti ti vedono perfetta e nessuno lo è».
Le donne, le protagoniste femminili dei suoi libri, sono spesso scomode, inquietanti e anche pericolose. Ce n’è una a cui si sente più vicina?
«Non ho mai risposto a questa domanda perché gli altri personaggi esclusi si offenderebbero ma parlerò del personaggio che mi ha imposto più ricerche storiche. Si tratta di Grace di “L’altra Grace” che è un personaggio realmente esistito, sono andata negli archivi, ho consultato i quotidiani e c’era sempre questa dicotomia nella visione di questa donna: alcuni la consideravano una povera ragazza innocente e altri una malvagia manipolatrice. Molto spesso le donne presentano questa duplicità di giudizi».  
In questo momento, a proposito delle donne e del femminismo, c’è qualcosa che la impensierisce più di altre e che riguarda le donne?
«Si, ce ne sono molte. Nel 1968 mi trovavo in Afghanistan, sei settimane prima dell’uccisione del presidente di allora e ho avuto un’esperienza diretta con quella parte di mondo che mi ha fatto capire ancora una volta che il progresso non è una linea dritta. Ci sono blocchi, si torna indietro, si va avanti, si procede velocemente, poi ci si ferma. Pensiamo al ’68 quando in Canada sono state firmate molte leggi che davano finalmente nuovi diritti alle donne. Poi negli anni ’80 c’è stato un regresso, la strada per il progresso non è mai una strada di mattoni gialli che ci porta diritto verso la città di Oz ma è qualcosa di complesso. Si interrompe, va indietro, avanti con forza e velocità, poi si blocca. Funziona così e ogni volta assisteremo a scene di violenze e repressione. Nel 2017, durante una marcia femminile c’era una donna che aveva più o meno la mia età che manifestava con un cartello in mano, c’era scritto: “perché sono ancora qui?” Perché c’è bisogno di manifestare ancora, di fare marce per la sicurezza delle donne? Perché funziona così, il mondo è questo, il cambiamento è un processo lungo, difficile e lento ma collaborando tutti assieme possiamo renderlo più veloce, è necessario. Quando il cambiamento climatico avrà degli effetti ancora più tangibili di adesso, provocherà anarchia, morte, distruzione, guerra e le categorie più svantaggiate saranno ancora le donne e i bambini». Esattamente come accade ne Il racconto dell’ancella quando June all’improvviso perde nome, cognome, identità, autonomia. Da quel momento diventa DiFred, perderà l’amore di sua figlia, del suo compagno, delle sue amiche trasformate all’improvviso, come lei, in ancelle. Era il 1984 quando Atwood  iniziò a scrivere questo romanzo: si trovava a Berlino Ovest e iniziò a pensare e immaginare DiFred e la Repubblica di Gilead, un regime estremista, misogino, senza amore. Il resto è storia, compreso il finale della serie tv, da poco arrivata in Italia. Ma dopo la rabbia, la vendetta delle donne e di June, poi? «Beh – risponde Atwood – ovviamente io lo so, ma non ve lo dirò».

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