«Copriti che poi pensano male» è uno dei leitmotiv con cui sono cresciuta, soprattutto da ragazzina, nel momento precedente e subito successivo al menarca, più o meno da quando ho dovuto iniziare a mettere il pezzo di sopra del costume senza capirne bene il perché (Lorenzo, il mio amico di giochi in spiaggia, aveva il petto come il mio ma non doveva metterlo): a dieci anni la sessualizzazione di determinate parti del corpo non esiste, ma un sentimento sociale di pudicizia, censura e controllo di matrice patriarcale e cattolica la impone sui corpi delle bambine, nonostante queste non sappiano ancora cosa sia l’alone di peccato che avvolge la loro figura.
Quando iniziai a capire che il mio corpo poteva portare intoppi di natura sociale, quando compresi che la parola «troia» era la più violenta delle offese e non aveva quasi mai a che fare con una sessualità che ancora non conoscevo bensì con parti di me troppo esposte o troppo strette nei vestiti, capii che qualcosa non andava, che io quel significato di peccato e svalutazione non lo volevo. Non era mio. Non veniva da me, ma da fuori di me, dal modo in cui gli altri vivevano la mia figura, come se fosse loro. Come se avesse un significato che io non volevo dargli. Già, perché il corpo femminile non ha il lusso di poter vivere con naturalezza. E per naturalezza intendo gioia nel vestire come più vuole, mostrarsi quando ne ha voglia, coprirsi o meno senza rischiare di essere impugnato o abusato in qualche modo, modificarsi, rendersi sensuale o semplicemente esistere in alcune forme non canoniche.
Il sistema patriarcale che si basa sul sessismo ha infatti imbrigliato e oggettificato ogni aspetto della fisicità femminile per renderla fruibile all’occorrenza, anche senza consenso. Estranea dai giochi di potere, perché attaccabile dal punto di vista morale. Valutabile in base a dei canoni scelti da tutti, fuorché dalla donna stessa. Silenziabile a comando con il solo uso della parola magica: puttana. Questo sistema ha funzionato perfettamente fino all’arrivo del femminismo che, tra i suoi concetti fondamentali, ha quello della riappropriazione del corpo in modo da liberarlo dall’oggettificazione, dallo slut shaming e dal victim blaming che lo incatenano nel suo ruolo di subordinanza. Il senso di questo riscatto è quello di voler svincolare i corpi femminili dai giudizi morali e sociali che gli vengono attribuiti, rivendicando il diritto a mostrarsi ed esistere senza subire discriminazioni di qualsiasi tipologia, perché un corpo è solo un corpo. È in questo senso che si può serenamente affermare che il corpo femminile sia politico. Politico, innanzitutto, perché di politica si parla, quando si tratta di femminismo. E poi perché lo stigma che accompagna i corpi femminili ha sempre risvolti politici: dal perdere valore morale in seguito allo slut shaming, al perdere le cause di stupro perché la vittima era vestita o svestita in modi inappropriati; da perdere il lavoro per aver pubblicato foto di nudo, all’essere fotografate da sconosciuti solo perché in topless, costume, gonna corta (la sezione upskirt dei siti di revenge porn è sempre in crescita, ndr) o hijab, che spesso viene tirato e strappato dalla testa delle donne islamiche in segno di sdegno e affermazione di potere; dalla ipersessualizzazione ed esclusione dei corpi neri all’emarginazione della persona reputata promiscua o differente, fino al body shaming e alla mancanza di tutela per persone con corpi non conformi, alla loro cancellazione dai circuiti mediatici con una totale mancanza delle loro rappresentazioni, come se quei corpi non esistessero e non potessero parlare e partecipare alla vita sociale. Riappropriarsi del proprio corpo, mostrarlo, renderlo visibile e rappresentato nei media diventa quindi liberazione attiva in un sistema che lo ha reso schiavo da sempre. Per questo urge una netta rivoluzione nella narrazione dei corpi femminili e questa deve passare per la liberazione degli stessi, mettendo fine a una strumentalizzazione becera e alla finta convinzione che il corpo della donna sia di tutti, tranne che suo. Che il giudizio esterno sia più forte dell’esistenza dello stesso corpo. Liberarsi – che è sempre un privilegio e non un obbligo, perché impone di aver le spalle larghe e ben coperte per poterlo fare – implica quindi riappropriarsi e ribadire a voce alta che un culo è soltanto un culo e che non conferisce nessun invito non verbale al commento, alla molestia, allo screditare una persona. Che un corpo non è meno meritevole di un altro, che il monopolio della rappresentazione non può esistere perché non è indice del mondo reale, ma contribuisce ad accrescere lo stigma delle categorie marginalizzate. Iniziare a presentare consapevolmente il corpo femminile nelle sue forme di autodeterminazione (qualsiasi esse siano) è il mezzo con cui riprenderci i pezzi in cui siamo state fatte in tutti questi secoli: il culo, il naso, la bocca, le tette, la pelle, il grasso, la forma, i troppi vestiti, il colore, i capelli, gli occhi, sono tutte parti che hanno perso il loro significato iniziale diventando gabbie e armi da usare per controllare e mortificare, per escludere e farti sentire a disagio.
Quindi sì, il corpo della donna è politico perché nessuna donna ne ha mai avuto pieno controllo e non esiste cosa più assurda e frustrante di questa. E i social sono il luogo in cui questo movimento ha avuto inizio, perché rappresentano sicuramente una coralità di voci non censurate che non hanno mai avuto spazio nel mainstream e ora stanno invece iniziando a mostrare come il mondo sia ben diverso. In definitiva, il corpo è sempre più politico anche e soprattutto grazie ai movimenti di liberazione e questo nuovo moto si sta facendo sentire. Nell’attesa di avere rappresentazioni reali e inclusive su ogni mezzo stampa e video, non abbiate paura di mostrarvi: abituare una società che ha sempre creduto di averci fisicamente in pugno non è facile. Ma, per fortuna, si sta dimostrando possibile, nonostante i «Copriti che poi pensano male» che ogni bambina riceve almeno una volta nella sua vita.