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Coming out

Fare coming out vuol dire venire allo scoperto. Tradizionalmente ci si riferisce al momento in cui si condivide apertamente con famiglia…

Fare coming out vuol dire venire allo scoperto. Tradizionalmente ci si riferisce al momento in cui si condivide apertamente con famiglia o amich* il proprio orientamento sessuale e/o identità di genere. Tuttavia, esistono tanti altri momenti in cui veniamo allo scoperto: penso alla prima volta in cui, in pausa caffè con le colleghe e i colleghi, ho lasciato intendere che stessi uscendo con una donna. È finita apparentemente bene, ma non benissimo. Il mio collega mi ha chiesto se fossi una di quelle a cui piacciono settanta per cento uomini e trenta per cento donne. Stava attribuendo una percentuale al mio orientamento sessuale, ovviamente sbilanciato in favore dei maschi perché si sa, se vai con una donna, non hai mai provato quello giusto.Essere apertamente se stess* sul luogo di lavoro è impegnativo per una persona LGBTQIA+. E non è sempre una decisione: scegliere è un privilegio che le persone come me spesso non possiedono. Possiamo al meglio rivendicarlo. Chi siamo – o meglio, come siamo percepit* essere – spesso arriva prima di quello che vogliamo o meno dire di noi. E in base a questo succede di non essere assunt*, di essere discriminat*, demansionat* e marginalizzat*. Non tanto l’essere una donna non binaria e bi/pansessuale, quanto la pubblicità di esserlo ha cambiato le geografie dei miei affetti. Ho perso relazioni e amicizie, anche storiche. Queste persone sapevano bene chi fossi, ma non volevano che lo sapessero tutte le altre. Forse era difficile per loro stare con me in pubblico. Nel definirmi, loro si sentivano espost* in prima persona. E di colpo ho smesso di essere la madrina ideale per l* figli* di coloro che avevo attorno, la persona migliore per parlare in pubblico a nome del team e la compagnia ideale per andare alle cene di lavoro. Fare quel passo mi ha però fatto sentire come se stessi rifiatando dopo una lunga apnea: non volevo più essere invisibile e nascosta. Avevo squarciato quel velo di Maya in cui ero rimasta intrappolata per anni, pur ripetendomi che non vi ero imprigionata ma mi ci ero rifugiata. “Ah no, non mi sto nascondendo” ripetevo a me stessa allo specchio, “mica le altre persone vanno dicendo cosa sono in giro. Io sono e basta.” Oppure, ancora più sofisticato, mi dicevo: “Non è il tuo capo a mortificare la tua identità, lui ti vuole solo proteggere perché il mondo lì fuori è cattivo e odia le persone come te e non vuole che soffri”. Non era vero. Chi sono metteva a disagio piuttosto le altre persone e non me. Essere pubblicamente – come chiunque – può costringere chi ho di fronte a rivelarsi come una persona omotransbifobica. E non c’è nessun «ho tanti amici gay» che tenga. Non solo sono una delle poche donne strategist, ma sono una donna non binaria. A me onestamente non cambia nulla: sono nata me. Col tempo però mi sono accorta che questo poteva cambiare qualcosa per qualcun altr*. Dopo lezione una studentessa mi ha detto: «Grazie prof, perché io pensavo che una persona come me non potesse mai essere ascoltata dagli altri con rispetto». Coming out, venire fuori, vuol dire proprio questo: essere visibile. Dire in pausa caffè che esco con una donna, senza pensare di doverle cambiare il nome in un inesistente Roberto, Francesco, Claudio. Fare coming out, sia a livello familiare sia a livello lavorativo, non è un passaggio obbligato. Se non ci si sente al sicuro o si teme che questo possa metterci in pericolo, non dovremmo farlo. Ma se invece ci sentiamo forti e al sicuro, farlo è un atto politico: guadagniamo visibilità non solo per noi. Ed è questo l’aspetto rilevante, per esempio, per una carica pubblica, politica, dirigenziale, opinion leader, carismatica, dichiaratamente LGBTQIA+. È rendere visibile, mostrare a una studentessa che per fare carriera non serve nascondersi, un’altra strada è possibile. Esattamente come hanno fatto in Germania l* centottantacinque attrici e attori con il loro coming out nel manifesto #ActOut per opporsi all’omertà a cui sono obbligate molte persone LGBTQIA+ in merito alla propria identità di genere. Minacciate da manager, collegh*, direttrici e direttori di casting e superiori a non dire nulla per non mettere in pericolo la propria carriera. Secondo queste persone, vivere liberamente se stess*, avrebbe pregiudicato la propria credibilità lavorativa in alcuni ruoli o avrebbe rovinato il rapporto con la fandom. Un problema che però non sembra porsi per attrici e attori eterosessuali e cisgender che interpretano serenamente persone LGBTQIA+, con disabilità, persone o ruoli black & brown. Io ho perso lavori per essere chi sono? Probabilmente sì. Sono lavori che rimpiango? Certamente no. Essere visibile ha reso, paradossalmente, visibili anche le altre persone: io per chi sono, loro per chi odiano. Mio padre un pomeriggio mi disse:«Un mondo per le persone come te non esiste e perciò dovrai costruirtelo». Invece ho scoperto che il «mio» mondo esiste, bisogna solo renderlo visibile.

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